La tecnologia indossabile è il nuovo campo di battaglia della guerra tra bellezza e funzionalità
“La vita è troppo breve per passare inosservati” – ha detto Paris Hilton nella sua biografia – “l’unica regola è non essere noiosi e vestire bene ovunque tu vada”. Tutti quelli che si sono buttati nel nascente business della tecnologia indossabile stanno – consapevolmente o meno – cercando di seguire questo consiglio. Ma, mentre per quanto riguarda la parte del non essere noiosi sembra che ci siamo (ricordate la storia del tizio sbattuto fuori da un ristorante perché indossava gli ormai celeberrimi Google Glass?), quella di tenere d’occhio il lato estetico della faccenda sembra ancora di là da venire. E insieme alla bellezza, lascia a desiderare anche quel poco che ci è dato capire della user experience.
Il mercato dei dispositivi indossabili varrà presto una vagonata di denaro. Le stime prevedono una transizione dagli attuali 1,4 miliardi di dollari fina ai 19 miliardi previsti per il 2018. C’è dunque da aspettarsi una agguerrita lotta per la supremazia. Ma la parte della tecnologia indossabile è la più ostica dell’intero Internet delle Cose. Il mondo della moda e quello della tecnologia di consumo appartengono infatti a due universi distinti, che si sono storicamente posti obiettivi diversi. Si tratta dell’antica guerra tra bellezza e funzionalità: la sintesi tra le due è molto difficile da trovare e anche a livello antropologico chi lavora nel tech e chi lavora nella moda sono persone che difficilmente si troverebbero bene, qualora uscissero a cena. Un team di stilisti-designer-programmatori è un animale fantasioso che non ha ancora fatto la sua comparsa nell’iperdarwiniano mondo delle start-up. Ma anche i grandi e i grandissimi non sembrano avere ancora le idee troppo chiare e per cavare il ragno dal buco hanno deciso di esternalizzare attraverso il crowdsourcing con iniziative che, mascherate da innovazione dal basso, cercano di capire se esiste qualcuno che abbia in testa l’idea magica, la killer app per sbloccare il mercato.
Intel, dopo la presentazione del suo mini-computer, ha lanciato una sfida globale chiamato Make it Wearable per incoraggiare imprenditori, ingegneri, designer e studenti (anche delle scuole superiori) a presentare le loro idee e concept per un prodotto indossabile che le persone userebbero volentieri e senza sentirsi automaticamente degli stramboidi. Anche Pebble, la startup che produce lo smartwatch con lo schermo a inchiostro elettronico, sta promuovendo un hackathon online (ovvero una maratona di sviluppo in cui si cerca di produrre nuove idee e prototipi) per la creazione di applicazioni per il suo smartwatch. L’Hackathon durerà fino al 23 marzo, e opererà come un torneo dove gli utenti di Pebble registrati possono votare per determinare l’applicazione vincente. Google, infine, ha annunciato alla fiera SXSW che rilascerà un kit di sviluppo software basato su Android per i produttori di dispositivi indossabili con lo scopo di produrre dispositivi e applicazioni da terze parti che possano sfruttare gli standard del sistema operativo mobile più diffuso nel mondo.
Google non è riuscita a manenere il vantaggio competitivo che si era assicurata con la precoce campagna mondiale per far conoscere i suoi occhiali intelligenti. Anche in quest’ultima categoria di prodotti i giochi non sono, in pratica, ancora iniziati. L’ultima novità che sta facendo discutere è l’alternativa sud koreana ai Google Glass. Sono più potenti, e ancora più brutti, ma non sono ancora stati commercializzati. Tuttavia non si tratta dell’unico caso e in giro ci sono molti altre sperimentazioni sul concetto degli occhiali intelligenti e connessi. È molto più difficile costruire un dispositivo wearable funzionante che un’applicazione mobile. E se quest’ultima può essere facilmente aggiornata in caso di bug, i prodotti fisici devono essere aggiustati uno per uno: un problema nell’hardware non può essere risolto da remoto. Ne sa qualcosa FitBit, produttore di un tracker per il fitness. Il suo prodotto ha causato irritazioni alla pelle a diverse centinaia di utenti e l’azienda ha così deciso di ritirare più di un milione di device dal mercato, facendosi restituire i prodotti a rischio. Un errore del genere può costare la vita a una giovane azienda. A differenza del software, l’hardware non perdona.
Vestiti e dispositivi tecnologici con l’uso tendono a diventare beni estremamente personali, su cui lasciamo impressa la nostra identità. Ma se fino a oggi le loro vie non si sono ancora incontrate, presto lo faranno e in realtà stiamo assistendo solo ai primi e goffi tentativi di integrare i due mondi. La pervasività delle tecnologie di comunicazione digitale è tale che molti oggetti inizieranno a parlare, raccogliere dati, twittare al posto nostro. Da poco c’è stata a New York un’iniziativa chiamata Wearable Technology Fashion Show che per la prima volta ha unito aziende, hobbisti e stilisti. Per il momento siamo ancora al livello di sperimentazioni e curiosità, a parte la gamma degli smartwatch delle varie marche, ma nel giro di una decina d’anni e data l’evoluzione e l’innovazione dei materiali, i vestiti stessi avranno circuiti direttamente intrecciati alla fibra dei tessuti, se non addirittura tessuti capaci di trasmettere segnali elettrici. Un giorno potrebbero addirittura esistere schermi con la stessa consistenza di un fazzoletto di seta. Ma quel giorno è ancora lontano e per il momento dobbiamo limitarci a quello che si può trovare in questa infografica.
Fonte: Linkiesta